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Spallanzani Science Department

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Marte, in volo sul cratere 'plasmato' dal vento e dall'acqua

Scritto da De Filippis Luigi.

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(Video) Marte: volo panoramico sopra il cratere Becquerel.

Il volo panoramico sopra il cratere Becquerel, nella regione Arabia Terra, è stato ottenuto dai ricercatori e grafici dell'Università di Berlino grazie alle osservazioni della sonda dell'Esa Mars Express. Il Becquerel è largo circa 167 chilometri e contiene al suo interno depositi più chiari di solfati formatisi grazie all'azione dell'acqua. I materiali più scuri sarebbero stati invece trasportati dal vento.

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Rosetta ridisegna origine della Terra: “Acqua oceani non proviene da comete”

Scritto da De Filippis Luigi.

È la prima, sorprendente scoperta fatta dalla missione Rosetta, che un mese fa per la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale ha permesso a una piccola sonda, Philae, di sbarcare sulla superficie di una cometa, 67/P Churyumov-Gerasimenko. I dati sono stati pubblicati su Science (l'abstract dello studio su Science).

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Se l’acqua che copre la gran parte della superficie terrestre è davvero piovuta dallo spazio, come ipotizzano le teorie più accreditate sull’origine del Sistema solare, probabilmente il merito non è delle comete. È la prima, sorprendente scoperta fatta dalla missione Rosetta, che un mese fa per la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale ha permesso a una piccola sonda, Philae, di sbarcare sulla superficie di una cometa, 67/P Churyumov-Gerasimenko.

In base alle prime analisi effettuate sui vapori della cometa dalla sonda madre – che da quest’estate vi orbita intorno – l’acqua di questo fossile cosmico dalla bizzarra forma a scamorza sembra avere una composizione chimica diversa da quella della Terra. Le firme delle due molecole non corrispondono. “L’acqua della cometa ha circa tre volte più deuterio (una variante dell’idrogeno, ndr) rispetto a quella della Terra”, sottolinea Kathrin Altwegg dell’Università di Berna, tra gli autori dello studio. “Sapevamo che le analisi di Rosetta avrebbero portato grandi sorprese sulla comprensione del nostro sistema planetario – aggiunge Matt Taylor, responsabile scientifico della missione -. Queste nuove osservazioni gettano, infatti, benzina sul fuoco nel dibattito sull’origine dell’acqua della Terra”.

La questione della provenienza dell’acqua degli oceani è ancora molto dibattuta tra astronomi e planetologi. Già nel 1986 le analisi effettuate dalla sonda Giotto, dell’Agenzia spaziale europea (Esa), sulla celebre cometa di Halley avevano mostrato risultati simili a quelli odierni, ma senza consentire di scartare del tutto l’ipotesi. Adesso i dati di Rosetta, pubblicati su Science e ottenuti grazie a uno degli strumenti di bordo, “Rosina” (Rosetta orbiter spectrometer for ion and neutral analysis), che ha annusato i vapori emessi dalla cometa, sembrano rivoluzionare le attuali teorie sull’origine cometaria degli oceani, costringendo gli studiosi a puntare il dito su un altro indiziato. Ad aver inseminato la Terra con la preziosa molecola alla base della vita sarebbe stata una pioggia di meteoriti, molto intensa agli albori del Sistema solare, circa quattro miliardi e mezzo di anni fa. “Le nuove misurazioni – scrivono gli autori su Science – avvalorano il modello che non invoca un’origine cometaria dell’acqua degli oceani, e per estensione di quella dell’atmosfera terrestre, ma da asteroidi simili alle cosiddette condriti carbonacee”.

(ilfattoquotidiano.it, Davide Patitucci, 13 dicembre 2014)

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Marte, in un video della Nasa com’era il Pianeta Rosso 4 miliardi di anni fa

Scritto da De Filippis Luigi.

Secondo gli ultimi dati del rover laboratorio della Nasa Curiosity c'era una distesa di laghi, in cui si specchiava una tenue atmosfera. L’ipotesi degli studiosi è che un tempo il pianeta possa essere stato caratterizzato dalla presenza di un clima mite e umido.

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Una distesa di laghi, in cui si specchiava una tenue atmosfera. Questo potrebbe essere stato l’aspetto di Marte quattro miliardi di anni fa. Lo indicano gli ultimi dati del rover laboratorio della Nasa Curiosity, che dall’inizio di agosto del 2012 scandaglia il grande cratere Gale sulla superficie arrugginita del pianeta. Un cratere che, secondo le analisi della sonda marziana, per milioni di anni avrebbe ospitato proprio un lago.

Facendo onore al proprio nome Curiosity – sbarcato su Marte per trovare prove che il pianeta un tempo abbia ospitato la vita – ha da poche settimane iniziato l’esplorazione del monte Sharp, che con i suoi 5 chilometri di altezza sovrasta il centro del cratere. E ha scoperto che questa formazione montuosa potrebbe essersi originata proprio a partire dai sedimenti depositati sul letto di un antico lago, prosciugatosi e riformatosi numerose volte nel corso della storia geologica del Pianeta rosso. Lo dimostrerebbero le centinaia di stratificazioni rocciose presenti sui fianchi della montagna, nella sua parte basale, difficili da spiegare se si esclude la presenza di acqua. “Abbiamo fatto grandi passi avanti nella risoluzione del mistero della formazione del monte Sharp – commenta John Grotzinger, del California Institute of Technology e membro della missione -. Dove oggi c’è una montagna, una volta forse c’era un lago”.

L’ipotesi degli studiosi della Nasa è che il Pianeta rosso un tempo possa essere stato caratterizzato dalla presenza di un clima mite e umido, in grado di garantire l’esistenza di laghi in differenti regioni e, chissà, anche di tracce di vita microbica. “La nostra ipotesi – spiega Ashwin Vasavada, del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, a Pasadena – contesta l’idea che su Marte le condizioni calde e umide siano state transitorie, locali, o solo sotterranee. Una spiegazione più radicale – spiega lo studioso del team di Curiosity – è che l’atmosfera del pianeta, un tempo fosse più spessa, permettendo alle temperature di superare la soglia di congelamento. Ma al momento non possiamo dirlo con certezza”.

“Le scoperte sull’evoluzione dell’ambiente marziano – gli fa eco Michael Meyer, del programma per l’esplorazione di Marte dell’agenzia spaziale Usa – contribuiranno a orientare le future missioni a caccia di segni di vita marziana”. Rimane da capire, ad esempio, se questi laghi si siano conservati sufficientemente a lungo da poter incubare la vita. Una prima risposta potrebbe arrivare dalla missione “Exomars” dell’Esa in programma per il 2018, in vista di un futuro sbarco dell’uomo sul Pianeta rosso, il cui primo passo è stato compiuto nei giorni scorsi con il lancio della capsula “Orion” della Nasa.

Il filmato della Nasa che mostra l’evoluzione di Marte

(ilfattoquotidiano.it, Davide Patitucci, 10 dicembre 2014)

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Rosetta, Philae: al via trivellazione superficie cometa con trapano italiano

Scritto da De Filippis Luigi.

Iniziate le operazioni di trivellazione della cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko con il trapano di fabbricazione italiana Sd2 del lander Philae, sbarcato due giorni fa su questo relitto del Sistema solare, alla ricerca dei mattoni fondamentali della vita. “Oggi è stato deciso di caricare la sequenza che attiverà lo strumento”, afferma Enrico Flamini, coordinatore scientifico dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), dal centro di controllo del lander Philae a Colonia. “Si tratta di un gioiello italiano. Nel vero senso della parola – spiega a Radio3Scienza Amalia Ercoli-Finzi, del Politecnico di Milano, mamma del trapano italiano -. Lo strumento ha, infatti, una punta di diamante, i fornetti di platino e le lenti di zaffiro”.

Gli scienziati della missione Rosetta hanno deciso di sfruttare le poche ore ancora a disposizione delle batterie del lander, che rischiano di esaurirsi perché i pannelli solari non sono sufficientemente illuminati. “I primi dati ci dicono che il trapano è fuoriuscito di 25 cm, e dunque funziona correttamente”, ha affermato durante il briefing mattutino Philippe Gaudon, uno degli scienziati della missione. I primi risultati potrebbero arrivare nella stessa serata di oggi. “Non sappiamo quanto siano cariche le batterie – aggiunge Flamini -, né quanto rapidamente la temperatura e altri fattori possano scaricarle”. “Sapremo com’è andata attorno a mezzanotte – gli fa eco Stephan Ulamec (nella foto), manager di Philae -. Le batterie, infatti, potrebbero esaurirsi anche prima del contatto atteso per questa sera. Se a mezzanotte non riusciremo a stabilire il link – aggiunge lo scienziato – allora vorrà dire che si saranno già esaurite”.

In seguito ai problemi agli arpioni, infatti, il lander ha mancato il sito previsto per lo sbarco e rimbalzato due volte sulla superficie cometaria, finendo su un cratere scarsamente illuminato. Gli scienziati stanno già lavorando per tentare di raddrizzare Philae, facendo perno sul suo braccio meccanico denominato Mupus (Multi-purpose sensors for surface and sub-surface science). Si tratta di uno dei dieci strumenti del lander, progettato per far leva contro la superficie della cometa, allo scopo di misurarne densità e proprietà meccaniche. Nel briefing mattutino i responsabili della missione hanno anche fatto il punto sullo stato di Philae. “Tutti e tre i piedi meccanici del lander poggiano al suolo – chiarisce Valentina Lommatsch, studiosa dell’Esa -. Ma il lander è circondato da rocce e non abbiamo ancora nessuna novità sulla sua esatta posizione”. “Siamo stanchi, ma soddisfatti”, aggiunge il responsabile delle operazioni di Rosetta per l’Esa, Andrea Accomazzo.

Non sono solo gli scienziati ad essere entusiasti della missione, come sottolinea un servizio del Tg4, andato in onda in occasione dello storico sbarco. A parte qualche voce fuori dal coro, come quella del telepredicatore turco Ahmet Mahmut Unlu, conosciuto come Cubbeli, che considera la missione dell’Esa “una cosa da maniaci, perché il mondo sarà finito prima che l’uomo possa mettere piede su Marte”, sono in tanti in tutto il mondo a condividere l’entusiasmo dello studioso italiano. Anche tra i non addetti ai lavori. Basti pensare che il giorno dello sbarco l’Hashtag “#CometLanding” è stato uno dei più caldi su Twitter.

Di certo tra le voci più entusiaste e appassionate c’è quella di Amalia Ercoli-Finzi, che sta seguendo in queste ore da Colonia i “primi passi” del suo trapano sulla cometa. “È un’impresa emozionante e complicata – commenta ai microfoni di Radio3Scienza -. Le condizioni sulla cometa sono estreme. Il nostro strumento, ad esempio, lavora con una potenza di 9 watt, quella di una lampadina di un albero di Natale”. Come la gran parte degli scienziati, il suo sguardo è sempre proiettato verso il futuro. “Sono speranzosa che un giorno, grazie agli sviluppi della tecnologia, forse potremo riportare indietro sul nostro Pianeta un pezzo di cometa, cioè – spiega la studiosa italiana – un pezzo di ghiaccio pieno di elementi chimici importanti per la vita. Speriamo di trovare lassù qualcosa che ci dica come si è scritta la vita sulla Terra, e quale contributo hanno dato le comete. Sono stati probabilmente questi affascinanti corpi celesti, infatti – conclude la scienziata – a portarci l’acqua dal loro serbatoio freddo ai confini del Sistema solare”. (Davide Patitucci, ilfattoquotidiano.it)

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Giappone, due isole fuse in una dopo l'eruzione vulcanica

Scritto da De Filippis Luigi.

schermataLa nuova isola spuntata nel novembre 2013 a seguito di un'eruzione vulcanica a sud del Giappone ha continuato a crescere fino a fondersi con la 'sorella maggiore' Nishino-shima (nota anche come isola Rosario, accresciutasi dopo un'altra eruzione all'inizio degli anni '70) per formare un'isola più grande nell'arcipelago Ogasawara. L'unione è avvenuta alla fine dell'anno ma l'attività che interessa la piccola Niijima non sembra fermarsi, le immagini del satellite Landsat mostrano infatti ancora colonne di fumo che fuoriescono dal cratere della nuova isola che ha superato il chilometro di larghezza. (repubblica.it)

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Usa, qual è lo stato più soggetto a terremoti?

Scritto da De Filippis Luigi.

 

La risposta che viene in mente, quasi senza pensarci, è la California. Il pensiero corre alla faglia di San Andreas, sempre pronta a scatenarsi, con il suo interminabile e spettacolare percorso di 1300 chilometri, schiacciata fra la placca pacifica e quella nordamericana. 
E invece, per l’anno 2014 almeno, la risposta non è la California. E’ l’Oklahoma.

Fra il 1978 e il 2008 in Oklahoma si registravano circa due terremoti l’anno di magnitudo 3.0 o più e lo Stato era considerato stabile, nonostante la presenza di un complesso sistema di faglie sotterranee. La tendenza al rialzo è iniziata nel 2009, e non si sa se è quando finirà..

I numeri sono strabilianti.

Nel 2011 due terremoti senza precedenti per l’Oklahoma di magnitudo 5.0 e 5.7 a Prague. Nel 2013 un totale di 109 terremoti di magnitudo superiore al grado 3, con un aumento del 5000% rispetto al normale, secondo i geologi. Nel 2014 di terremoti ce ne sono stati già 207 – fino ad adesso, metà annata. In California ‘solo’ 130.

Di chi è la colpa? Sciami sismici ogni tanto emergono anche nell’interno degli Usa, ma qui, come dice il geologo Rob Williams dell’Usgs si tratta molto di più di uno sciame sismico: si tratta di eventi che continuano a ripetersi, su aree molto vaste e con terremoti abbastanza intensi. Certo, dice Williams potrebbe pure essere un evento raro e naturale, di quelli che accadono ogni diecimila anni, ma la causa più probabile per molti di questi terremoti è il fracking in atto in Oklahoma e sopratutto la reiniezione di materiale di scarto di pozzi di petrolio e di gas nel sottosuolo

I fluidi immessi nel sottosuolo ad alta pressione non creano faglie nuove, ma lubrificano quelle esistenti che magari erano in queiscenza e modificano tutti gli equilibri sotterranei. Ad esempio, a Settembre 2013 una apposita commissione ha ordinato a un operatore di fluidi di reiniezione di abbassare le pressioni e di dimunire i volume di reiniezione dopo un improvviso sciame sismico in zona.

Ma l’Oklahoma petrolizzata non è un pozzo o due, è quasi tutto lo Stato. In 70 delle 77 contee dell’Oklahoma si estrae petrolio o gas. L’80% del territorio dello stato è caratterizzato da un pozzo di reiniezione nel giro di almeno nove miglia. In totale ce ne sono 4,500.

Le operazioni di reiniezione vanno avanti in Oklahoma da quasi venti anni. Perché se ne sentono gli effetti solo adesso?

abstract-terremoti-oklahomaDanielle Sumi, geologa dall’Usgs spiega semplicemente che a un certo punto si arriva ad un punto critico in cui il sistema non può più assorbire tutti i fluidi reimmessi, e le pressioni sotterranee diventano cosi elevate che questa viene scaricata sotto forma di terremoto.

E infatti, il terremoto di Prague è stato attribuito alle operazioni di reiniezione che hanno prima causato il terremoto di intensità 5.0, innescando a sua volta quello di intensità 5.7. Le operazioni petrolifere hanno qui riattivato la faglia di Wilzetta, fino ad allora dormiente.

E siccome non ci sono abituati, il primo pensiero dei residenti dell’Oklahoma va altrove: saranno camion che fanno incidenti, sarà la lavatrice che cade, saranno le fondamenta della casa che cedono. Qualcuno fra i più anziani ha pensato ad un nuovo attacco terroristico, come ad Oklahoma City, nel 1995. Ci sono pure scosse in diretta in televisione con i reporter che cercano di mantenere la calma.

Intanto le assicurazioni contro i terremoti vanno a ruba.

(fonte: ilfattoquotidiano.it, ambiente & veleni, Maria Rita D'Orsogna)

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Laboratorio di Geologia "Renato Funiciello" Lezione dell'alunno della 5C Gabriele Proietti Mattia

Il 24 maggio scorso durante l'inaugurazione del Laboratorio di Geologia dedicato al Prof. Renato Funiciello, l'alunno della 5C Gabriele Proietti Mattia ha tenuto alla presenza degli illustri ospiti, scienziati, docenti universitari, ricercatori, una lezione, con il supporto di una presentazione in Power Point, sul principio di funzionamento del sismografo Lehman in dotazione al laboratorio. I presenti si sono congratulati con il nostro allievo per la sicurezza e la competenza con cui ha svolto il suo intervento.

Complimenti Gabriele e auguri per una futura carriera scientifica.

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Megaterra, scoperta la “nonna” della Terra. Il suo Sole ha 11 miliardi di anni

Scritto da De Filippis Luigi.

 
 
Megaterra, scoperta la “nonna” della Terra. Il suo Sole ha 11 miliardi di anni

Gli astronomi la chiamano “Megaterra” ed è come se fosse la ”nonna” del nostro pianeta. Il corpo celeste in questione è roccioso, grande 2,3 volte le dimensioni della Terra ma 17 volte più denso, che orbita intorno a una stella simile al Sole, ma notevolmente più anziana visto che ha ben 11 miliardi di anni. A individuare il pianeta è uno strumento italiano nel Telescopio Nazionale Galileo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) a Las Palmas, nelle Canarie.

Pubblicata sulla rivista Arxiv, la scoperta si deve al consorzio di ricerca internazionale coordinato da Xavier Dumusque, del Centro di Astrofisica Harvard-Smithsonian. È un risultato notevole: da un lato aumenta la possibilità di trovare pianeti simili alla Terra e potenzialmente in grado di ospitare la vita; dall’altro rivoluziona l’immagine dell’universo primitivo. Se, infatti, un pianeta roccioso si è formato quando l’universo aveva appena 3 miliardi di anni significa che una certa quantità di elementi pesanti era già presente fin dalla prima generazione di stelle.

A rivelare la vera natura della “nonna” della Terra è stato lo spettrografo Harps-N (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern emisphere), un vero e proprio cacciatore di pianeti nato dalla collaborazione fra Italia, Svizzera, Stati Uniti e Gran Bretagna.

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Il vulcano di fango di Fiumicino: ora sappiamo dove si accumula il gas

Scritto da De Filippis Luigi.

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Come noto e documentato da numerosi mass-media, la mattina del 24 Agosto 2013 si è improvvisamente sviluppato un piccolo vulcano di fango e gas nei pressi dell'aeroporto Leonardo Da Vinci a Fiumicino (Roma). Il vulcano ha allagato ed "infangato" la rotonda di Coccia di Morto ed ha continuato ad emettere fluidi fino a Gennaio-Febbraio 2014 quando è stato chiuso definitivamente con il cemento. Il fattore innescante tale emissione è stato di natura antropica. Si è trattato, in particolare, della perforazione di un sondaggio geognostico di poche decine di metri di profondità all'interno della rotatoria di Coccia di Morto.
 
Studi scientifici e storici precedenti hanno messo in luce che manifestazioni simili a quelle del 24 Agosto 2013 si sono verificate più volte nell'area di Fiumicino. Anche nel 2005, la perforazione di un sondaggio geognostico a poche centinaia di metri dalla suddetta rotatoria aveva improvvisamente aperto la strada all'emissione di anidride carbonica ed altri gas in tracce. Recentemente, alcuni studiosi di scienze della Terra (A. Argentieri e M. Pantaloni) hanno documentato che altri fenomeni simili avvennero con certezza nel 1925 e nel 1890, rispettivamente in occasione della costruzione della vetreria della Società Anonima per l'Industria del Vetro a Fiumicino (1925) ed in occasione della campagna di sondaggi per la costruzione dello Stabilimento Idrovoro di Ostia (1890) (http://www.geoitaliani.it/2013/10/1925-leruzione-di-fiumicino.html).
 
Il colpevole di tali manifestazioni è il gas (sostanzialmente anidride carbonica) in pressione nel sottosuolo che porta in superficie acqua e fango allorquando una perforazione geognostica od uno scavo ne facilita la risalita. È quindi fondamentale conoscere dove tale gas si accumuli per gestire propriamente e prevenire tali evenienze.
 
Un gruppo di geologi e ricercatori (Pio Sella, Andrea Billi, Ilaria Mazzini, Luigi De Filippis, Luca Pizzino, Alessandra Sciarra, e Fedora Quattrocchi) del CNR, Geomagellan, INGV, Università Roma Tre e Liceo Scientifico Spallanzani, ha seguito il fenomeno innescatosi nell'agosto 2013 e, grazie ad una serie di indagini geologiche, ha scoperto dove si accumula il gas in pressione. Nei pressi della rotatoria di Coccia di Morto, il gas si accumula nel sottosuolo a circa 40-50 m di profondità all'interno di un orizzonte di ghiaie di circa 5-10 m di spessore. Le ghiaie ospitano una falda acquifera confinata tra due orizzonti di argille che si trovano sopra e sotto le ghiaie e che risultano determinanti per l'intrappolamento del gas. Non è escluso che ci possano essere sacche di gas anche più profonde.
 
I risultati di tale studio sono in via di pubblicazione sulla prestigiosa rivista internazionale Journal of Volcanology and Geothermal Research e contribuiscono notevolmente alla comprensione dei fenomeni dei vulcani di fango nell'area di Fiumicino. Tali risultati costituiscono inoltre il pre-requisito per la gestione degli scavi nell'area di Fiumicino.
 
Articolo di riferimento:
 
Sella, P., Billi, A., Mazzini, I., De Filippis, L., Pizzino, L., Sciarra, A., e Quattrocchi, F., 2013. A newly-emerged (August 2013) artificially-triggered fumarole near the Fiumicino airport, Rome, Italy. Journal of Volcanology and Geothermal Research, doi: 10.1016/j.jvolgeores.2014.05.008.
 
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Comunicazione Corso di Geofisica

Si comunica agli studenti interessati che il test finale del Corso di Geofisica si terrà giovedì 8 maggio presso il Laboratorio di Scienze della Terra. 

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Big Bang, scoperti i primi “tremori” dell’Universo dagli scienziati di Harvard

Scritto da De Filippis Luigi.

La conferma è una delle più attese della fisica contemporanea, ossia che c'è stata effettivamente un’epoca in cui, istanti dopo il Big Bang, l’universo ha cominciato a espandersi nella cosiddetta “fase di inflazione”. Albert Einstein ancora una volta aveva ragione. Dall’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Boston giunge un annuncio che, se confermato, potrebbe avere la stessa portata della scoperta del bosone di Higgs.

 

Albert Einstein ancora una volta aveva ragione. Dall’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Boston giunge un annuncio che, se confermato, potrebbe avere la stessa portata della scoperta del bosone di Higgs. E aprire una nuova finestra sul cosmo, come quando Galileo Galilei ebbe l’idea di puntare, primo al mondo, un cannocchiale verso il cielo. Gli scienziati dell’esperimento Bicep (Background imaging of cosmic extragalactic polarization), un particolare telescopio installato presso la base Amundsen-Scott del Polo Sud, hanno affermato di aver trovato per la prima volta, ascoltando i primi vagiti del cosmo, le impronte delle onde gravitazionali primordiali, increspature dello spazio-tempo originatesi subito dopo il Big Bang, secondo quanto previsto dalla teoria della Relatività Generale. E da allora in viaggio in ogni direzione, come le onde di un lago, attraverso i meandri dell’universo. “Sono i primi tremori del Big Bang”, questa la definizione data dagli astrofisici americani.

La comunità scientifica è in fibrillazione. L’entusiasmo si alterna alla prudenza. Uno dei tasselli mancanti nell’architettura dell’universo, disegnata nel 1916 dal geniale fisico tedesco, sembra aver trovato finalmente collocazione dopo quasi un secolo di attesa. “È la prima immagine diretta di onde gravitazionali che attraversano il cielo primordiale”, spiega Chao-Lin Kuo, della Stanford University, tra i leader del team americano. “Wow! Sarebbe davvero una grande, grande, grande scoperta – commenta a caldo Hiranya Peiris, astrofisico dell’University College di Londra -. Le onde gravitazionali rappresentano il Sacro Graal della cosmologia”. “Un annuncio straordinariamente eccitante, che potrebbe valere il Nobel”, gli fa eco Andrew Jaffe, cosmologo dell’Imperial College di Londra.

Ma perché è così importante questo annuncio? “La cattura di questi segnali è uno degli scopi principali della cosmologia moderna”, afferma John Kovac, dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, uno dei leader del team di studiosi di Bicep. “Se confermato, si tratta di un vero e proprio colpaccio – commenta Giovanni Bignami, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) -. Eravamo certi che le onde gravitazionali esistessero, perché ce lo ha detto Einstein, ma finora non le avevamo mai osservate”.

L’esperimento del Polo Sud è dedicato allo studio dell’eco del Big Bang. Si tratta di una radiazione fossile con la frequenza delle microonde, individuata nel 1965 dagli americani Arno Penzias e Robert Wilson – vincitori del Nobel in fisica nel 1978 per questa scoperta -, che gli scienziati hanno battezzato radiazione cosmica di fondo. In pratica, una sorta di messaggio in bottiglia spaziotemporale, emesso circa 300 mila anni dopo il Big Bang, che ci racconta del “fiat lux” dell’universo, quando il cosmo divenne cioè trasparente alla luce, fino ad allora imbrigliata dalla materia in un abbraccio che ha impedito ai fotoni di sfuggire via. Un abbraccio che acceca i comuni telescopi ottici, rendendo loro impossibile guardare come appariva l’universo bambino nei suoi “primi” 300 mila anni di vita. In particolar modo, di catturare i suoi primi passi. I cosmologi non hanno ancora compreso, ad esempio, come mai l’universo ci appaia così uniforme in qualunque direzione lo si osservi. Almeno finora. “Adesso – spiega Bignami – in un colpo solo abbiamo visto le onde gravitazionali e capito come ha fatto l’universo a diventare così grande e così in fretta. E lo abbiamo fatto usando un canale d’informazione diverso dalla luce”.

Una delle ipotesi più accreditate, infatti, è che 10-34 secondi dopo il Big Bang – un lasso di tempo pari, cioè, a un decimo di milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo – l’universo neonato si sia espanso esponenzialmente, passando all’istante dalle dimensioni delle particelle a quelle tipiche delle scale cosmiche. Un’affascinante teoria, nota come inflazione, parecchio dibattuta tra i cosmologi, perché ancora priva di robusti riscontri sperimentali. Ma che potrebbe aver lasciato delle tracce, sottoforma di increspature nel tessuto dello spazio-tempo. Proprio come quando si lancia un sasso in uno stagno. “Questo risultato rappresenta una sorta di pistola fumante rispetto alla teoria dell’inflazione – spiega Avi Loeb, fisico teorico di Harvard -. Può, infatti, raccontarci quando l’inflazione ha avuto luogo e quanto potente è stato il processo”.

Sarebbero proprio queste increspature, le onde gravitazionali primordiali, rimaste impresse nell’eco del Big Bang, ad essere giunte fino a noi dopo un viaggio di circa 14 miliardi di anni. Fino ad essere catturate dalle sofisticate orecchie dell’osservatorio Bicep, nel silenzio dei ghiacci remoti del Polo Sud. “Uno dei luoghi più asciutti e limpidi della Terra – sottolinea Kovac -. Perfetto per osservare le tenui microonde provenienti dal Big Bang”.

“Se gli scienziati americani – conclude Bignami parafrasando Newton – sono riusciti a vedere così lontano, è perché sono saliti sulle spalle degli europei, grazie ai risultati della missione Planck, che ci ha fornito una mappa dettagliata dell’universo bambino”. (a cura di Davide Patitucci, da ilfattoquotidiano.it del 17 marzo 2014)

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La mappa geologica di Ganimede

Scritto da De Filippis Luigi.

ganymede

La prima mappa geologica globale di Ganimede, la settima luna di Giove e la più grande del sistema solare, scoperta da Galileo Galilei nel 1610, è stata pubblicata dalla US Geological Survey sulla base dei dati raccolti durante i flyby delle sonde Voyager 1 e 2 della NASA, avvenuti nel 1979, e Galileo, sempre della NASA, avvenuti in due occasioni, rispettivamente nel 1995 e 2003. La mappa illustra l'incredibile varietà di caratteristiche geologiche di Ganimede e aiuta a fare ordine nell'apparente caos della sua superficie complessa. Secondo gli scienziati autori della mappa, si possono distinguere tre grandi epoche geologiche: quella dominata dalla formzione dei crateri d'impatto, seguita da una fase di sconvolgimento tettonico a cui è succeduto infine un periodo di forte riduzione dell'attività geologica. (fonte: lescienze.it)
 
(Cortesia USGS Astrogeology Science Ctr/Wheaton/ASU/NASA/JPL-Caltech)

video: http://www.lescienze.it/news/2014/02/17/video/ganimede_mappa_geologica-2012092/1/?ref=nl-Le-Scienze_21-02-2014

 

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Spazio, “ecco come l’assenza di gravità influisce su muscoli e ossa”

Scritto da De Filippis Luigi.

L’assenza di gravità. Sembra proprio che se l’essere umano vorrà avviare la colonizzazione dell’Universo questo sarà uno dei principali problemi da risolvere. Non solo perché la mancanza di gravità indebolisce muscoli e ossa, come è già stato appurato in numerose ricerche scientifiche, ma anche perché riduce le funzionalità del sistema immunitario.

A rivelarlo, sulle pagine di PLoS One, uno studio dell’Università della California di Davis condotto su moscerini della frutta (Drosophila melanogaster), nati e cresciuti direttamente nello Spazio. Risultati chiari e non rassicuranti quelli ottenuti dagli scienziati statunitensi: questi animali, utilizzati spesso come modelli per lo studio di malattie e meccanismi biologici umani, sono partiti come uova ancora non schiuse sullo Shuttle Discovery della Nasa, sono nati e si sono sviluppati in orbita (impiegano appena 10 giorni a diventare adulti) e, una volta tornati sulla Terra, hanno mostrato un sistema immunitario molto indebolito. In altre parole, questi insetti risultavano più vulnerabili dei loro simili agli agenti patogeni, in particolare agli attacchi di funghi.

Tuttavia, oltre a questo, gli studiosi hanno osservato anche che nel caso in cui venivano sottoposti in laboratorio, grazie a particolari macchinari, a un ambiente a gravità più intensa, la loro risposta immunitaria tornava a migliorare. Cosa che conferma ulteriormente che le forze gravitazionali hanno un impatto sulle difese dell’organismo, anche se, come spiegano gli autori dello studio, il motivo per cui questo accada ancora non è noto: la teoria più probabile è che l’assenza di gravità inneschi la produzione di particolari proteine legate a condizioni di stress fisiologico (dette proteine da shock termico), che potrebbero avere l’effetto di limitare l’attivazione dei recettori che aiutano a riconoscere e sconfiggere l’attacco di funghi, riducendo così le difese per questi agenti patogeni. Ma si tratta di una spiegazione ancora tutta da verificare.

“Quel che è certo però – ha commentato Deborah Kimbrell, coordinatrice dello studio – è che se le future navicelle spaziali avranno a disposizione degli strumenti capaci di simulare una gravità aumentata, ciò non sarà utile solo per mantenere in salute massa muscolare e ossa, come già sapevamo, ma anche l’organismo in generale. E saranno dunque indispensabili per i viaggi più lunghi nell’Universo”.

(di Laura Berardi Dal Fatto Quotidiano/Scienza del 3 febbraio 2014)

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Parte il corso di ArcheoGeoTrekking

Scritto da De Filippis Luigi.

I docenti Proff. L. De Filippis, G. Borgianni, F. De Angelis, T. Favale e M.C. Valeri sono lieti di informare gli studenti iscritti al corso di ArcheoGeoTrekking che le lezioni avranno inizio il 5 febbraio alle ore 14 presso il nostro Liceo.

 Corso di ArcheoGeoTrekking 2014

05/02 – Introduzione al corso. Lezione sull’evoluzione geologica del Lazio con proiezione di un documentario. La geomorfologia del territorio della Valle dell’Aniene.

12/02 - La geologia del Bacino delle Acque Albule.

26/02 – Lezioni di Trekking e Archeologia.

05/03 – 1a escursione di ArcheoGeoTrekking (nel territorio comunale di Ciciliano): Il villaggio fortificato degli Equi di “Coccianegliu”. Osservazioni di archeologia, geologia e geomorfologia.

02/04 - 2a escursione di ArcheoGeoTrekking (nel territorio comunale di Ciciliano): La via Trebulana e la Villa dei Grottoni. Osservazioni di archeologia, geologia e geomorfologia.

09/04 - 3a escursione di ArcheoGeoTrekking (nel territorio comunale di Ciciliano): Il centro storico di Ciciliano ed il castello medievale (Theodoli).

16/04 - 4a escursione di ArcheoGeoTrekking (nel territorio comunale di Tivoli): Il Tempio della Dea Bona. Osservazioni di archeologia, geologia, vulcanologia e geomorfologia.

30/04 – Test finale.

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Stephen Hawking e i buchi neri: “Non esistono”. Lo studio su Nature.

Scritto da De Filippis Luigi.

 

Stephen Hawking e i buchi neri: “Non esistono”. Lo studio su Nature

 
È diventato il cosmologo più famoso del mondo grazie ai suoi studi sui buchi neri. I suoi libri sull’universo hanno venduto milioni di copie e le sue teorie hanno fatto capolino anche in alcuni episodi di Star Trek e dei Simpson. Ma il padre dei buchi neri adesso sembra rinnegare le sue stesse intuizioni scientifiche e cambia idea sull’esistenza di questi cannibali cosmici, che divorano ogni cosa passi nelle loro immediate vicinanze, luce compresa.

In uno studio ripreso su Nature Stephen Hawking mette in dubbio l’esistenza della nozione di “orizzonte degli eventi” – colonne d’Ercole al di là delle quali ogni cosa finisce nell’abbraccio gravitazionale del buco nero – giudicandola incompatibile con la meccanica quantistica, la teoria che descrive la natura dell’universo nell’infinitamente piccolo. Se l’affermazione fosse giunta da un altro scienziato sarebbe stata bollata quantomeno come stravagante. Ma se a ridiscutere la natura dei buchi neri è l’uomo che più di ogni altro ha legato il proprio nome a questi oggetti cosmici – la cui esistenza fu ipotizzata nel 1916 dalla teoria della Relatività di Einstein – l’affermazione non può passare sotto silenzio.

Le certezze di Hawking cominciano a vacillare già alcuni anni fa, quando le ricerche dei fisici John Preskill e Kip Thorne ipotizzano che in particolari condizioni l’informazione di ciò che precipita in un buco nero non sia persa del tutto. Hawking si mostra subito piuttosto scettico e fa una scommessa con i due studiosi. Nel contempo, decide però di approfondire l’ipotesi. Ne dimostra la veridicità e paga la scommessa, regalando ai colleghi un’enciclopedia di baseball. Adesso sembra essere andato molto oltre i suoi dubbi iniziali. “Secondo la nuova formulazione di Hawking – scrive Nature - materia ed energia restano prigioniere del buco nero solo temporaneamente, per poi essere rilasciate, sebbene in una forma alterata”.

Il cosmologo che ha ricoperto la cattedra lucasiana di matematica all’Università di Cambridge, la stessa che fu di Isaac Newton, afferma su Nature che “sebbene per la fisica classica non ci sia via di fuga da un buco nero, la meccanica quantistica consente a energia e informazione di evadere. Tuttavia, la corretta definizione della questione rimane ancora un mistero”. Mistero strettamente correlato a uno dei nodi ancora irrisolti della fisica moderna: l’incompatibilità tra la Relatività di Einstein, che descrive l’universo su grandi scale e la meccanica dei quanti, che spiega il mondo a livello subatomico. Le equazioni della fisica, infatti, come sono formulate adesso, sembrano perdere significato quando si spingono a descrivere cosa accade oltre il limite invalicabile dell’orizzonte degli eventi. Per questo fisici e cosmologi sono da decenni a caccia della cosiddetta “teoria del tutto”, che possa tenere insieme l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo. Lo studio di Hawking si inserisce proprio in questo filone di ricerca. E cerca di trovare una risposta al cosiddetto paradosso del buco nero: cosa accadrebbe a un astronauta che avesse la sfortuna di avvicinarsi troppo a un orizzonte degli eventi?Secondo le teorie più accreditate, finirebbe arrostito o sarebbe stiracchiato come un lungo spaghetto, a causa dell’immane differenza di gravità percepita ai due estremi del corpo, prima di scomparire. Ma il problema è proprio questo. Il suo destino sarebbe comunque segnato, ma cosa resterebbe dello sventurato astronauta dopo il suo incontro ravvicinato col buco nero? Quali informazioni rimarrebbero su di lui dal punto di vista fisico? Il lavoro di Hawking, denominato con il suo consueto umorismo “Mantenimento dell’informazione e previsioni del tempo per i buchi neri”, cerca di trovare una risposta a questi interrogativi. Basato su una lezione tenuta dal cosmologo britannico lo scorso agosto in occasione di un meeting presso il Kavli Institute for Theoretical Physics di Santa Barbara, in California, in esso il celebre cosmologo traccia una terza via: considerare la possibilità che l’orizzonte degli eventi non esista affatto, sostituito da un “orizzonte apparente” in grado di imbrigliare sì la luce, ma solo temporaneamente.

L’informazione, secondo questa nuova teoria, sopravvivrebbe al buco nero. Non ne sarebbe distrutta, ma rimescolata. E riemergerebbe, irriconoscibile, sottoforma di radiazione – già battezzata in passato radiazione di Hawking -. Una condizione che rende impossibile ricostruire la natura fisica di ciò che precipita dentro un buco nero. Hawking ricorre al paragone con le previsioni meteo per spiegare il destino che attende chi si avventura troppo nei dintorni di un buco nero: in teoria è possibile prevedere che tempo farà, e quindi cosa accadrà, ma in pratica è estremamente difficile riuscirci con la giusta accuratezza. La conclusione cui giunge Hawking alla fine del suo ragionamento è drastica. “L’assenza di orizzonti degli eventi – sentenzia lo scienziato nel suo studio – implica che non esistano buchi neri, nel senso di regimi dai quali la luce non può più sfuggire verso l’infinito”.

(di Davide Patitucci, ilfattoquotidiano.it, 27-01-2014)

 

L'articolo su Nature: http://www.nature.com/news/stephen-hawking-there-are-no-black-holes-1.14583

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